Sono il tuo nemico, l’ultimo uomo che hai veduto,
quello che ha avuto più paura e per primo ha fatto fuoco;
ma se la tua premura, quel giorno mi ha salvato,
l’odore del tuo sangue mi ha per sempre condannato.
Mi ha condannato a vivere, ogni istante, ogni minuto,
con il tuo sguardo incerto fisso al centro dei miei
occhi;
mi ha condannato il volto a non avere più sorriso,
a fumare all’infinito e a vegliar tutte le notti.
Ad affrontar battaglie senza scudi e senza armi,
nella guerra quotidiana contro tutti i miei tormenti;
a non trovar motivi stimolanti ed entusiasmi
che nemmeno il primo figlio ha potuto ripropormi.
Quel figlio che ho voluto già dal giorno dopo,
quando sono tornato dalla sposa mia, sfinito;
quel figlio che ho deciso già la sera del congedo,
quando mi han mandato a casa con la medaglia ed il
saluto.
E illuso che un po’ d’anima l’avrei messa in
salvo,
l’ho battezzato in Maggio con il tuo nome stesso,
intanto che nel cesso gettavo la medaglia,
che mi pungeva il cuore, muto per la vergogna.
Il fato, caro Piero, ci è davvero stato infame,
poteva anche decidere di farci essere amici
e farci raccontare di donne e di altre storie,
o, si, sfiorarci appena, ma incrociandoci con un sorriso.
E invece, ragazzo mio, questa sorte ci ha deriso,
ha scelto lei per noi il costume, il posto e l’ora;
ci ha divisi in campo e alla fine, poi, ci ha ucciso,
lo stesso giorno, a entrambi, cambiando solo la maniera.
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